Ho appena finito di leggere il libro "Vite Sicure", della collega Ilaria Guidantoni (Edizioni della Sera, 15 euro). Sono appena 156 pagine di piccolo formato e alcune ho potuto anche saltarle perché riportano ciò che ho detto a Ilaria sul (discutibile) modo di approcciarsi alla sicurezza stradale da parte dei quotidiani. Eppure ci ho messo molto a leggerlo, un po' perché le cose di lavoro e di famiglia non mi danno mai tregua e un po' perché volevo metabolizzare i tanti spunti emersi dalle voci dei comunicatori e degli esperti di sicurezza riportate da Ilaria. La cosa che accomuna un po' tutte è la convinzione che i messaggi "forti" nelle campagne sulla sicurezza non servano. Perché sono disturbanti e questo, contrariamente a quanto accade all'estero (soprattutto in Francia), induce la gente a rifiutare il messaggio. Credo che ciò sia stato dimostrato scientificamente solo per quanto riguarda i giovani (lo ha fatto la squadra di psicologi della Sapienza di Roma che lavora da anni con la Polizia stradale al progetto Icaro, sotto la guida di Anna Maria Giannini), ma per quanto riguarda gli adulti non conosco ricerche altrettanto profonde e quindi resto perplesso.
Le voci prevalenti nel libro vogliono dire che vanno bene le campagne "all'acqua di rose" che hanno prevalso sinora, piene di slogan perlopiù a sfondo umoristico e poco più? Per fortuna, no: anche su quelle nel libro ho visto scetticismo. Spicca la voce di Sergio Dondolini, direttore generale Sicurezza stradale al ministero delle Infrastrutture, che in questa veste è anche il committente delle campagne più importanti a livello nazionale. Dondolini dice sostanzialmente basta all'impostazione classica degli slogan fatti solo per catturare l'attenzione come fanno gli uomini di pubblicità e marketing per i normali prodotti. Perché, una volta attirata l'attenzione, qui il prodotto non c'è o, meglio, non si nota: in fondo, l'unico effetto tangibile della sicurezza stradale è il poter arrivare a casa sani e salvi, cosa che i più danno per scontato (dimenticando che gli incidenti su strada sono la prima causa di morte tra i 18 e i 40 anni). Quindi, la gente nota il messaggio, ma poi non riesce a capire bene perché è importante tenere il comportamento prudente richiamato da esso e, alla fine, continua a commettere gli errori di sempre.
E allora che si fa? Il ministero negli ultimi anni batte su messaggi positivi-propositivi. Infatti lo slogan che li unisce tutti è "Sulla buona strada". Per renderli credibili, si affida a testimonial del mondo dello sport e dello spettacolo amati dal pubblico e scelti con garbo (per esempio, non i calciatori, da comportamento sempre chiacchierato, ma la Nazionale di uno sport "puro" come il rugby). Io però temo che non basti: manca un modo efficace per rendere l'idea che l'incidente può capitare a ognuno di noi, che poi è l'idea fondamentale per spronare la gente a mettere nella guida sempre tutta l'attenzione, la capacità e la prudenza possibili.
Per arrivare a questo risultato, sono convinto si debbano in parte recuperare gli spot choccanti. Con un'importante precisazione: non mi riferisco tanto a quelli dove si vede il sangue o si sentono in presa diretta i pianti e i lamenti di chi ha appena avuto un incidente grave (anche se una tantum credo opportuno provarci), quanto agli spot che danno l'idea di quanto sia facile che una tragedia ci colga anche mentre percorriamo la strada di tutti i giorni. Penso allo spot (inglese, se non ricordo male) in cui si vede la sequenza parallela di un signore frettoloso in auto e della ragazza distratta che attraversa sulla strada da lui percorsa; la scena è ripetuta tot volte per simboleggiare tot giorni, finché il destino vuole che i due passino nello stesso istante per lo stesso posto e accade l'irreparabile.