Nel Ferrarese ha appena fatto scandalo una condanna “troppo lieve” per un 65enne che aveva ucciso un ragazzo in moto un anno fa. Ma ora nelle Marche ecco una situazione opposta: si è lasciato praticamente morire l’uomo che ad aprile 2017 aveva investito mortalmente il campione di ciclismo Michele Scarponi: dopo l’incidente, era rimasto tanto traumatizzato e colpevolizzato da rinunciare a curare la malattia che aveva. Sempre un anno fa, in Abruzzo, il vedovo di una giovane donna uccisa in un incidente aveva preso una pistola e “vendicato” la moglie, ammazzando l’investitore. C’è un filo tra queste vicende: la legge sull’omicidio stradale, che il mese prossimo compirà due anni e quindi inizia ad essere matura per essere giudicata in modo compiuto.
Non poteva certo essere quella legge a far calare incidenti e morti (che infatti negli ultimi anni hanno interrotto una lunga serie positiva): quando una persona si mette alla guida, normalmente ha paura più delle multe che degli incidenti, per cui non è molto portato a mettere in conto di finire sotto processo per omicidio stradale. Molto più senso ha prevenire, anche con misure semplici. Come, visto che qui stiamo parlando anche di ciclisti e motociclisti investiti, indumenti che rendano più visibile chi li indossa (se ne è parlato giusto oggi a un convegno organizzato da Polizia stradale e Fondazione Ania).
Assodato questo, diventa chiaro che la norma è stata voluta soprattutto per placare la sete di giustizia dei familiari e degli amici delle vittime. E ha rischiato di non riuscirci neanche, se non fosse stato tolto dal testo originario un vincolo assurdo: per essere condannato alle pene più pesanti, il colpevole doveva essersi messo alla guida consapevole di essere ebbro o drogato (quando mai potrebbe esserlo uno che si trova in queste condizioni?).
Nel caso del Ferrarese, la sete non si è placata. Né avrebbe mai potuto: se l’investitore ha potuto patteggiare una pena di appena un anno (sospesa, per giunta), non è stato perché il giudice sia stato particolarmente magnanimo, ma perché non c’erano le condizioni per essere più severi. Infatti, come avevo scritto sul Sole 24 Ore del 6 marzo 2016 dopo aver valutato la nuova norma e le statistiche assieme all’amico Guido Camera (esperto penalista), con la legge sull’omicidio stradale il rischio di scontare effettivamente la pena in carcere c’è prevalentemente per chi causa un incidente quando è sotto effetto di alcol o droga. E qui la vittima era stata investita da una persona che semplicemente stava svoltando a sinistra per portare la sua auto in carrozzeria senza aver visto la moto del ragazzo che transitava regolarmente nel senso opposto.
A Vasto (Chieti), invece, il marito della vittima non aveva sopportato che l’investitore fosse rimasto ancora a piede libero. Non poteva più aspettare che arrivasse una sentenza, che sarebbe certamente arrivata e avrebbe portato anche a una condanna severa. Ma non nei tempi sopportabili dall’assassino. Per quanto le indagini su un incidente siano delicate e quindi non possano portare a sentenze rapide in nessun caso. Nemmeno se la giustizia italiana fosse rapidissima.
Tra l’altro, la giustizia deve sempre essere equilibrata, come dimostra il male di vivere che aveva colto l’investitore di Scarponi trasformandolo in vittima.
Dunque, chi soffia sul fuoco della vendetta e della deterrenza deve fare attenzione. E bisogna spiegare bene quali sono le finalità delle leggi. Consapevoli che non si può eccedere né in lassismo né in garantismo: un caso non è come un altro e una persona non è come un’altra. Questo è spesso il dilemma dei giudici. Ma spesso politica e opinione pubblica lo dimenticano.