Si fa presto a pontificare quando un ventiduenne muore alla guida di una Ferrari che si spacca in due dopo essere uscita di strada uccidendo anche il cugino undicenne, com’è capitato l’altro giorno nel Vicentino. E si fa presto anche a indulgere in comprensione quando emerge che il giovane guidatore aveva per le auto una passione che era praticamente una ragione di vita. Ma tutto questo porta fuori strada l’opinione pubblica. Cerchiamo di fare ordine.
Cominciamo col dire che “la Ferrari” coinvolta nell’incidente è una 355. Cioè un modello di vent’anni fa, quindi privo dei sistemi di sicurezza elettronici che – se usati con un minimo di criterio – possono evitare molti incidenti (soprattutto sul bagnato, come appunto l’altro giorno) e con un telaio dalla resistenza agli urti scarsa rispetto ai modelli attuali. Dunque, la parola “Ferrari” nei titoli dei media fa molta presa, ma c’è Ferrari e Ferrari e tenerlo a mente aiuta a non trarre giudizi affrettati dalla sciagura di Vicenza.
Quanto alla passione del ragazzo che guidava, gli umanissimi ricordi degli amici la descrivono come qualcosa che gli faceva sembrare musica lo stridore delle gomme sull’asfalto. Aldilà della poesia dell’immagine, far stridere le gomme non ha nulla di bello; chi sa guidare davvero, anche a livelli agonistici, sa che meno le gomme stridono e più si va veloci. Dunque, il vero piacere sta nel prevenire le perdite di aderenza che causano quegli stridori: ci s’inebria meglio con l’idea di andare più veloci con meno sforzo, è una situazione di controllo fantastica. Però per saperlo bisogna provarlo in pista, con un istruttore esperto di auto e di psicologia di chi le guida. Per adesso, abbiamo solo perso altre due giovani vite.