Il sì di Mirafiori, l’umore degli operai e la qualità delle vetture

Per carità, lasciamo a socio-giornalisti, sindacalisti, politici ed esperti veri i commenti sulla vittoria del sì nel referendum di Mirafiori. Ma poniamoci esplicitamente una domanda che sorge spontanea, visto che tutti concordano almeno sul fatto che con i nuovi accordi tra azienda e fronte sindacale extra-Fiom il lavoro nelle fabbriche automobilistiche italiane diventerà più pesante e che molti operai hanno bocciato le nuove clausole anche di fronte al rischio di perdere il lavoro: con quale cura verranno costruite le vetture in Italia? E, quindi, quale livello qualitativo riusciranno ad offrirci? Rischieremo errori di montaggio pericolosi anche per la sicurezza, tipo lo scambio dei semiassi destro e sinistro che – vado a memoria – si verificò nel 1986 sulle prime Alfa 33 turbodiesel (prodotte a Pomigliano)?

Rispetto a quei tempi, le tecnologie costruttive si sono evolute un bel po' e quindi la mano dell'uomo, pur restando indispensabile (altrimenti gli operai sarebbero tutti a casa da un pezzo), non è più così determinante per la qualità del montaggio. A maggior ragione, sembra impossibile che si torni ai livelli inaccettabili dei tumultuosi anni Settanta, quando le ammiraglie Fiat 132 uscivano di fabbrica persino col rivestimento che penzolava dal padiglione perché qualcuno aveva sbagliato a montarlo e qualcun altro non se n'era nemmeno accorto. Tuttavia, non si può escludere a priori che ci saranno problemi, tanto più gravi a Mirafiori se si pensa che la Fiat – se confermerà i suoi piani – vi produrrà suv di derivazione Chrysler, quindi auto destinate a una clientela incline più a spendere che a perdonare. E l'umore degli operai potrebbe ulteriormente peggiorare se si danno per buone le voci secondo cui la vendita dell'Alfa alla Volkswagen sarebbe già cosa fatta e comporterebbe un trasferimento all'estero del grosso della produzione del marchio ex-milanese.

Sarebbe un peccato, soprattutto se si guardano i risultati dell'ultimo rapporto sull'affidabilità anticipati ieri da Dekra Italia (Scarica CS_Rapporto affidabilita 2011_140110 e Scarica DEKRA_Classifica affidabilita 2011_140111): viene confermato che le Fiat-Alfa-Lancia dell'era-Marchionne (alcune delle quali, però, concepite prima del suo arrivo) sono nettamente migliori dei modelli precedenti e più o meno all'altezza della diretta concorrenza. Certo, poi bisogna vedere se ormai la Fiat si stia confrontando con concorrenti asiatici di livello basso, rispetto ai quali alla lunga perderà a causa di costi di produzione più elevati. Sarebbe stato anche bello se dai dati Dekra fosse uscito che tra le grandi berline a spodestare le immarcescibili Audi fosse stata una bella italiana e non la Insignia (della Opel, diretta concorrente della Fiat, con gli stessi problemi di posizionamento troppo basso del suo marchio). Ma intanto il miglioramento delle auto italiane c'è stato e i clienti ne hanno beneficiato.

  • diana |

    Anche a me l’aspetto dei nuovi modelli lascia un po’ perplessa (aumentare il tasso di sfruttamento degli impianti con quale prodotto, se poi non lo vendi?), ammetto si possa trattare di un mio limite.
    Per chi fosse interessato, sul sito Fiat è disponibile (forse un po’..nascosto!) il file della presentazione di Marchionne all’investor day 2010, dove sono riportati tutti i nuovi modelli in programma:
    http://www.fiatgroup.com/en-us/shai/iinfo/presentations/Documents/FGA_2010_2014-A_way_forward.pdf
    Che ne pensate?

  • francescopa |

    L’articolo evidenzia una sua elevata sensibilità verso la soddisfazione dei clienti e quindi sulla qualità del prodotto. La mia esperienza, sono un ingegnere di 69 anni in pensione dopo 35 anni di lavoro,quale responsabile tecnico e di produzione mi porta a queste considerazioni:
    – La qualità del prodotto Fiat degli anni 70-80 non era dipendente dai tempi di lavorazione, questi ultimi erano sempre oggetto di trattative sindacali che li portavano al rialzo. Le trattative, il più delle volte facevano aumentare i tempi del 30%. La Fiat ed altre aziende potevano assegnare i tempi corretti, a parità di prodotto, negli stabilimenti del Sud anche con risultati qualitativi migliori. I veri problemi degli anni 70-80 erano le dimensioni delle fabbriche e la continua lotta sindacale che non permettevano una corretta gestione della produzione e conseguente qualità.
    Oggi l’organizzazione del lavoro, le dimensioni della fabbrica e il coinvolgimento dei lavoratori permettono un migliore raggiungimento degli obiettivi di qualità.
    – Il problema della variazione delle pause nella “catena di montaggio” è un problema minimo in altre realtà le pause sono solo a fine turno.
    La Fiom ha puntato ad evidenziare ed ingigantire questo problema.
    -Il vero problema del Paese Italia è stato causato da una vera DROGA dovuta dal continuo aiuto di Stato che da una parte non ha sollecitato le Industrie ad investire in innovazione ed il sindacato a fare richieste al rialzo tanto aiutava l’industria ad ottenere i finanziamenti statali.
    Concludendo bisogna che si metta ordine nei ruoli di ogni rappresentante della vita civile, come ha fatto Lei in questo articolo non entrando in merito nella trattativa, il sindacato deve fare una analisi sul suo ruolo in Italia e come è cambiato in Europa.
    Nel consiglio di amministrazione di molte aziende sono presenti rappresentanti sindacali.

  • MarcoB |

    “La vendetta dell’Alfa Romeo”, direbbe un vecchio alfista, e titola un bel libro che ho letto ultimamente e che spiega un po’ il rapporto tra il padrone (FIAT) e il subordinato (Alfa).

  • RS |

    Nessun dubbio sui motivi della determinazione di Marchionne sopra enunciati e pochi sulla qualità dei prodotti. La cura del crucco Harald Wester sui processi credo sia stata talmente radicale da evitare derive pericolose in fatto di qualità. E, peraltro, le Jeep e Chrysler europee prodotte da Magna Steyn non hanno mai brillato né per livello produttivo né per affidabilità dei componenti.
    I rischi più forti, invece, a mio avviso, Marchione li corre sul versante prodotto: non basta mettere il marchio Lancia a delle casse da morto di produzione Usa per renderle appetibili ai clienti europei. Funziona il processo contrario, dall’Europa agli Usa, come sta scoprendo con entusiasmo Ford, ma – tralasciando l’ormai defunto pedigree di Lancia – le Chrysler restano vetture ingombranti di scarso appeal, a meno che Marchionne non preveda di svenderle sotto il marchio Lancia a prezzi da cinesi. E non riesco a immaginare legioni di europei (meno ancora di italiani) che si scannano per la versione “made in Fiat” del crossover Dodge Journey.
    Investitori oculati e attenti come i coreani di Hyundai si sono addirittura dotati di un centro stile proprio in Germania, a Francoforte, e non a caso stanno mietendo successi sia in Europa sia negli Usa (con numeri da miracolo economico). Che cos’hanno di tanto attraente le Chrysler di ultima generazione: il design gratuitamente aggresiv-spigoloso con cromature surdimensionate? le dotazioni di bordo? il comfort? l’affidabilità? Non certo il prestigio di un marchio Usa semi-defunto e di uno scudetto Lancia ormai appannato. Taccio sul servizio (vendita e officine) perché tra Fiat, Lancia e Chrysler le mie personali esperienze sono state tutte parimenti tragiche.
    Dopo tanto cancan credo che Sergio abbia bisogno di un enorme “in bocca la lupo”. Altrimenti il referendum sarà solo servito a prolungare l’agonia di un gruppo Fiat che pare non saper più “inventare macchine”. Aleggia su Mirafiori lo spettro di Alehandro De Tomaso, l’uomo del miracolo che doveva riportare Innocenti agli splendori del 1960…

  • mario |

    Rispetto al 1986 indubbiamente molto è cambiato nei processi di produzione di un’autovettura. Premesso che a quei tempi (specialmente negli autunni caldi degli anni precedenti) parte delle anomalie riscontrate sulle vetture prodotte erano probabilmente dovute ad azioni di boicottaggio, oggi sarebbe molto più difficile sbagliare (o sabotare). Il prevalere delle teorie della total quality giapponese ha trasformato l’assemblaggio in operazione di altissima precisione organizzata per singoli stadi affidati a squadre di operai guidate da team leader che controllano a fine operazione che tutto sia a posto prima di passare alla fase successiva. Ma il punto da lei sollevato a proposito del livello morale degli operai resta. Se consideriamo che il costo di un’autovettura è formato in linea di massima da 5-10% dalla progettazione/realizzazione/collaudo prototipi, da 65-70% dai componenti provenienti da fornitori esterni e solo dal restante 20-30% da componenti del costruttore (di cui manodopera di assemblaggio 7%), si capisce che la qualità di una vettura solo in minima parte è controllata direttamente dalla casa automobilistica. D’altronde se andiamo a controllare le ragioni dei richiami ci accorgiamo che in massima parte sono dovuti alla qualità dei componenti esterni piuttosto che da errori di assemblaggio o da difetti dei componenti del costruttore. Se Fiat e i politici esaspereranno le conseguenze della vittoria a Mirafiori, non è escluso il rischio che da fabbriche di minore dimensioni di fornitori esterni maggiormente controllate da Fiom, potrebbero arrivare mal di pancia a Fiat se non boicottaggi(perchè la minore dimensione offre ancora tali occasioni. Anche se in teoria un fornitore non affidabile si può cambiare, nell’auto non è operazione facile nel breve tempo. Inoltre ci sono casi come Magneti Marelli, azienda a totale capitale Fiat, nei cui stabilimenti Fiom è largamente maggioritaria. Cambiare Magneti Marelli sarebbe un’operazione molto complessa tecnicamente e soprattutto costosa. In ogni caso un clamoroso autogol per il Lingotto. Un’ultima considerazione sulla posizione di Marchionne. Se il costo di assemblaggio in linea di un’autovettura è dell’ordine del 7% le pause imposte da Marchionne porteranno un risparmio solo marginale e poco si capisce dell’accanimento sugli operai. Le ragioni di Marchionne non sono però economiche, ma di natura diversa. Vuole un maggior controllo dei processi e del governo della fabbrica. A Mirafiori vuole portare il nuovo modello della Jeep perché la manodopera in Italia è inferiore che negli Usa; per farlo però deve investire capitali americani e gli azionisti americani sono i sindacati che per evitare il fallimento di Chrysler hanno investito il loro TFR e il fondo pensioni. Per autorizzare Marchionne hanno richiesto garanzie tra le quali il maggior controllo della fabbrica e un ridimensionamento dei diritti sindacali. Ecco perché Marchionne è così determinato.

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