Poco fa mi hanno avvisato che in un forum di discussione sulle auto a metano c’è qualcuno che mi rimpiange. Nel senso che alcuni "metanisti" hanno un problema sulle loro Volkswagen e, non essendo ancora riusciti a darne evidenza sulle riviste specializzate, hanno ricordato un episodio del 2001 in cui invece io mi ero fiondato a fare un’inchiesta su alcune Fiat a gas che si rompevano, notando che io non sono più al mio posto dell’epoca e che evidentemente la rivista dove lavoravo ha più timore reverenziale nei confronti della Volkswagen che per il costruttore nazionale. Mi sembra utile dare qualche spiegazione, per evitare che i lettori (sì, tutti voi!) finiscano "fuori strada" nel valutare il comportamento di giornali e giornalisti e per dare indicazione su come trattarci.
Infatti, il problema non sta né in chi ha preso il mio posto né nel timore reverenziale di un editore o di un direttore nei confronti di questo o quel costruttore. Sta in ciò che è diventata l’informazione, perlomeno in questo Paese. E i colpevoli – anche se ignari – sono anche i lettori.
Probabilmente anch’io, se fossi rimasto al mio posto dell’epoca, non avrei potuto far nulla. Per troppi motivi: alcuni sono fisiologici, altri per nulla.
Tra quelli fisiologici c’è il fatto che noi giornalisti siamo liberi di pubblicare una notizia perchè siamo abilitati (abbiamo anche fatto un esame di Stato, ohibò!) a decidere che cosa sia d’interesse giornalistico e cosa no; questa è la motivazione ufficiale con cui i direttori si e ci difendono dalle accuse e non nego che talvolta sia vera (forse lo è anche nel caso da cui siamo partiti). Così come è vero che a volte non riusciamo ad andare fino in fondo per materiale impossibilità: mica abbiamo i poteri di perquisire e intercettare.
Molto meno giustificabile è il fatto che sempre più spesso anche organi di stampa che – tra le altre cose – si accreditano come difensori dei consumatori rinuncino a fare le inchieste, che di fatto sono una delle poche cose che davvero servono per difendere i consumatori. Ci rinunciano perché costano e perché – fatalmente – finiscono col pestare i piedi a qualcuno cui non si può: in alcuni casi, non si può per motivi "di buoni rapporti" (coi politici, con altri potenti, con aziende per le quali si ha interesse o altro), in altri perché si rischia di perdere la pubblicità (succede soprattutto con le aziende). Quest’ultima eventualità è forse la iattura peggiore, perché oggi il mondo dell’informazione campa di pubblicità ma non lo si sa troppo in giro ed è per questo che dico che è anche colpa dei lettori: se fossero in grado di premiare chi fa davvero le inchieste giuste acquistando in massa il frutto di tali inchieste, noi potremmo permetterci di mandare al diavolo più di qualcuno che ci ricorda chi ha in mano i cordoni della borsa. Altre volte, invece, di certi argomenti non ci si occupa perché li si giudica ansiogeni, poco adatti a un pubblico che da noi cerca anche qualche momento di relax guardando belle foto e pezzi scritti in modo "ameno".
Qualcuno di voi e dei tanti miei colleghi più schierati di me nella difesa dello status quo (che poi è spesso il semplice stipendio) mi potrebbe far notare che ci sono inchieste che si fanno lo stesso e ciò smentirebbe le mie teorie. Rispondo che qualche inchiesta si dovrà pur fare, per salvare almeno la faccia. Altre volte la si fa per non abdicare totalmente al proprio ruolo, ma sempre stando attenti a non esagerare (nei toni o nei fatti riportati) e a concedere alla controparte qualche contropartita (magari qualche articolo "riparatore" su una sua iniziativa insulsa che altrimenti non meriterebbe la pubblicazione). Altre volte ancora si lascia il giornalista libero di "sparare", perché tanto il bersaglio non fa pubblicità; ma poi può accadere che i bersagli di oggi diventino i soggetti da proteggere domani, perché hanno deciso di scucire qualche soldo di pubblicità.
Quest’ultimo è il motivo per cui non ha senso paragonare un episodio del 2001 e un altro del 2008 concludendo che ci sarebbe più timore reverenziale verso Tizio o verso Caio. Un giornale può arrivare ad avere paura anche di un moscerino, se in quel momento il moscerino sta pianificando una campagna pubblicitaria. Ovviamente chi non è un moscerino può avere voce in capitolo anche a prescindere dal fatto di essere o meno tra le 10 aziende top spender in pubblicità (ma guardacaso, se prendete la classifica di spese e spenditori, ci trovate un bel po’ di case automobilistiche). La verità è che ci si trova ogni giorno in un gioco di grandi e piccoli equilibri e in questo contesto la posizione dei direttori non è certo invidiabile (stipendio a parte). Loro non possono dirlo, io – da manovale ormai discretamente vissuto e senza ambizioni di carriera – sì.
Potrete dirmi quello che volete, ma se c’è un ambito che si salva da queste cose – per quanto mi riguarda – è quello del servizio pubblico: la Rai ha mille difetti e sudditanze (di cui si parla e scrive abbondantemente tutti i giorni), ma quando ho lavorato con loro non ho mai avuto di questi problemi. Mi aiuta il fatto che le rogne di cui mi occupo io non sono poi così strategiche per un’azienda del genere (e infatti gli spazi a disposizione sono esigui), ma di certo c’è che proprio per queste questioni il servizio pubblico è effettivamente tale.