Nel post precedente ho scritto che secondo me le bufale che il mondo dell’informazione lancia in giro sono troppe e che la colpa è legata ai soldi: per far quadrare i bilanci, gli editori si affidano troppo alla pubblicità e investono poco sui giornalisti. Dell’influenza della pubblicità vi ho scritto qualcosa nel post precedente. Degli scarsi investimenti sui giornalisti vi scrivo ora, partendo da una storia vera.
Non avendo notizie di un vecchio amico e collega, ho cercato il suo nome su Google. Ho così scoperto che, negli anni in cui ha svolto il ruolo di inviato (di fatto, perché invece nel contratto risultava come semplice redattore ordinario) per un importante settimanale allegato a un prestigioso quotidiano, si è beccato una querela e tanti rimbrotti da parte di giornalisti locali che aveva interpellato di volta in volta nella sua attività itinerante. Quanto alla querela, di solito per noi giornalisti sono motivo d’onore: se hai lavorato bene o quasi bene, sarai assolto e resterà il fatto che il querelante ha agito contro di te perché lo hai meritoriamente colpito svelando le sue marachelle. Quanto ai rimbrotti dei colleghi, questo è un mestiere che attrae molto chi si sente una primadonna e quindi l’invidia è garantita. Ma nel caso del mio amico, leggendo le cose che gli vengono addebitate, mi resta la sensazione che lui effettivamente qualche errore lo abbia fatto. Non tanto per suo demerito, quanto perché è il sistema che gira così.
Infatti, la maggior parte dei giornalisti è costretta a occuparsi di cose sempre diverse, senza poterne approfondire nemmeno una. Tanto peggio per chi svolge un ruolo da inviato, saltabeccando in continuazione qua e là per l’Italia come faceva o fa ancora il mio amico (è lontano il tempo degli inviati che partivano poche volte all’anno e nel resto del tempo potevano stare in redazione a studiare e documentarsi: costano troppo e rendono poco!). Così, non essendo Mandrake, l’inviato deve appoggiarsi ai colleghi locali, cosa che non basta perché spesso la fretta dettata dai tempi di lavoro è tale che fai loro una domanda e non ascolti nemmeno la risposta. Ammesso poi che i colleghi locali siano sufficientemente bravi e aldisopra delle parti da padroneggiare la materia in tutte le sue sfumature (spesso sono solo dei cronisti generici, sanno poco di cose giuridiche, economiche o comunque di altre specializzazioni) e senza dare conto a qualche potente del posto.
Ne emerge un quadro complessivo di inadeguatezza. Tanto più grave se si pensa che, col passare del tempo, il mondo non si semplifica. Si complica. Pensate solo a tutte le leggi e le sentenze che si affastellano di mese in mese su ogni materia. Lo vedo personalmente dal tempo che quotidianamente – quando posso – devo dedicare allo studio (sottraendolo alla famiglia e al sonno, non alle pagine da produrre). E l’ho rivisto a fine maggio sfogliando il numero speciale della "Staffetta" (rivista specializzata in petrolio ed energia in genere, è una delle cose che studio quando posso) per celebrare i suoi 75 anni: in molti articoli di giornalisti ed esperti qualificati, sia pur con la cerimoniosità del caso, si sottolineava la differenza tra un’informazione davvero specializzata e quella generalista e d’opinione, che semplifica troppo le cose e alla fine non ne fa capire i suoi veri motivi. Tanto che certi articoli, anche di giornali prestigiosi, potrebbero essere anche più brevi: aggettivi tanti e spiegazioni poche, così almeno ci facciano perdere meno tempo nella lettura.
Io, i colleghi con cui mi confronto e chi ha scritto su quella "Staffetta" percepiamo un po’ ovunque nelle redazioni che si va sempre più nella direzione generalista e d’opinione, di quelle che illude di spiegare tutto ma – a leggere con la giusta attenzione – lascia più dubbi di prima. Si preferisce il giornalista veloce, in grado di riempire le pagine a prescindere da quanto abbia capito delle cose su cui scrive (per esperienza, so che molti colleghi parlano di queste cose nascondendo la propria ignoranza, che emerge solo alla distanza e se l’interlocutore è un tipo attento). Generalmente questo è anche il tipo di giornalista che si fa meno domande su cosa sta facendo e quindi dai suoi articoli emergerà più facilmente la tesi su cui i superiori gli hanno detto di battere di più (perché giustifica un bel titolone a effetto anche se travisa i fatti o perché fa gli interessi di qualcuno che può imporli). Anche quando questa tesi non è affatto dimostrata.