Bufale/2 – Quando la pubblicità invade il campo

Lo avete letto nel post precedente e anche in molte altre cose che vi ho scritto nei giorni scorsi: girano parecchie bufale sulla sicurezza stradale. A me non pare che ce la si possa cavare dicendo che è agosto e le pagine dei giornali bisogna pur riempirle (con la graziosa complicità di politici interessati ad apparire). Magari in questi giorni sarò particolarmente pessimista, ma temo che – come denuncia Beppe Grillo sia pure con errori grossolani – sia un problema strutturale del mondo dell’informazione e che riguardi un po’ tutti gli argomenti, non solo la sicurezza stradale. Perché i soldi sono pochi rispetto a quelli che servirebbero per fare informazione come si dovrebbe. E, per giunta, vengono sempre più da soggetti che di un’informazione del genere sarebbero le prime vittime e quindi hanno tutto l’interesse affinché noi giornalisti facciamo solo finta d’informare. Non sto parlando dello scandalo Watergate, cioè di cose tanto delicate che immaginate tutti quali pressioni scatenino: penso sia più preoccupante sapere che succede anche nelle cose minime di tutti i giorni.

Come un filmato che ho visto poco prima di andare in ferie sul sito di un’importante rivista (fare nomi è inutile, è tutto uguale, come si vede anche dal bollettino delle sanzioni dell’Antitrust contro la pubblicità occulta): due miei colleghi che si prestano a fare da attori per lanciare due nuove versioni della Mini cui, guardacaso, la versione cartacea della rivista aveva dedicato un bel po’ di spazio, nonostante fossero semplicemente normalissime Mini con alcuni accessori secondari e qualche fregio in più. Tra le varie amenità del video, si vede una guida disinvolta in città, che culmina in un parcheggio muso a muso in corrispondenza di un incrocio, fatto per bere qualcosa in un bar alla moda come evidentemente s’impone a chi compra un’auto modaiola come la Mini. Insomma, in un’epoca in cui persino la pubblicità fatta direttamente dalle case automobilistiche è piuttosto guardinga nell’inneggiare alla trasgressione stradale, si sono usati giornalisti per girare immagini in cui si commettono infrazioni.

Di solito, dietro iniziative del genere ci sono esigenze pubblicitarie. Lo so io e lo sanno anche i colleghi coinvolti: lo sappiamo tutti, nel nostro ambiente, ma abbiamo paura a metterlo in piazza perché temiamo di affossarci definitivamente, ormai va così e ringraziamo se l’attuale assetto ci consente ancora di vedere lo stipendio a fine mese. Solo qualche coraggioso ci ha scritto pure qualche libro e fatto reportage, di cui ovviamente pochi mezzi d’informazione detto che esistono (eppure ce ne sono di rubriche che si occupano di libri…).

Se invece si scoprisse che almeno il filmato delle Mini non è stato farina del sacco pubblicitario, stupirebbe che i colleghi si siano fatti riprendere vicino alle due auto parcheggiate irregolarmente (e non si dica che parcheggiare contromano vicino a un incrocio non è un’infrazione pericolosa). L’unica consolazione è che nel giro di qualche ora il video è stato tolto (ma per un po’ è rimasto ancora accessibile tramite canali di natura pubblicitaria riferibili alla Bmw, proprietaria del marchio Mini).

In generale, temo che a lungo andare di questa coincidenza tra pubblicità e giornalismo si accorgeranno sia i lettori sia le aziende che hanno qualcosa da pubblicizzare. Entrambi, per ragioni opposte, potrebbero arrivare alla conclusione che si fa prima e si risparmia a interagire direttamente tra loro, saltando il filtro dei giornalisti, visto che ormai filtra ben poco. A quel punto, si salvi chi può.

Sono convinto che gli editori, dato che i loro bilanci da tempo segnalano una prevalenza degli introiti pubblicitari sui ricavi di vendita, siano ormai convinti della necessità di sacrificare questi ultimi e puntino in prima battuta sui primi. Anche perché andare al traino della pubblicità fa risparmiare: limita il fabbisogno di giornalisti (specie se qualificati, che tra l’altro vengono spesso visti come poveri rompiscatole fuori dal tempo e dal mondo), le spese per trasferte (quando gli argomenti da mettere in pagina li decide di fatto la pubblicità, i viaggi sono pagati dagli inserzionisti) e le rogne che le inchieste vere (quelle fatte con viaggi a carico degli editori!) creano con istituzioni e inserzionisti medesimi (non di rado le due categorie coincidono) perché scoperchiano pentoloni.

Quello che credo gli editori non abbiano invece preventivato è il fatto che, di questo passo, anche i rubinetti della pubblicità rischiano di stringersi: congiuntura economica a parte, quando gli inserzionisti si renderanno conto che i media saranno screditati e sempre meno diffusi tra la gente, ci metteranno un attimo a farsi pubblicità in altro modo. Non succederà certo domani mattina, ma alla lunga…

In ogni caso, al fondo di tutto c’è il fatto che persino un editore che voglia fare informazione in modo giornalisticamente perfetto andrebbe probabilmente in fallimento: troppo spesso i lettori non sono in grado di riconoscere queste qualità e quindi non le premiano diventando fedeli a chi gliele offre. Se vedono un altro prodotto infiocchettato in modo analogo che costa meno, prendono quello, spesso senza accorgersi che ha contenuti più superficiali o errati. Quindi, ogni società ha il giornalismo che si merita. Come la politica, la classe dirigente eccetera.