Ieri sera tardi ho preso un taxi dall’aeroporto milanese di Linate. Una corsa lunga, tra tangenziale e città. Il tassista guidava in modo straordinariamente corretto (in assoluto, non solo in rapporto alla media abbastanza sconfortante della sua categoria): usava regolarmente la freccia, rispettava alla lettera gli stop, rispettava i limiti di velocità e sulla tangenziale teneva la corsia più libera a destra. Esponeva persino un cartello che ricordava a TUTTI i passeggeri l’obbligo di allacciare le cinture (sissignori, anche dietro: l’obbligo c’è dal 26 aprile ’90, appena un anno dopo che era entrato in vigore quello per i posti anteriori). Insomma, sembrava un candidato timoroso che sostiene gli esami per la patente. Ma io la patente non gliel’avrei mai data: questo povero tassista affrontava le curve a scatti e non sapeva tenere le mani sul volante. Quindi, un minimo imprevisto e avrebbe perso il controllo dell’auto. Così –lo ammetto- ho trascorso con preoccupazione il tempo di quella corsa.
Mi è tornata alla mente una giovane donna che perse la vita su un taxi andando proprio a Linate all’alba di Natale (del ’99 o del 2000, non ricordo). Ho pensato anche ai tanti tassisti che ho “esaminato” (è una deformazione professionale, osservo la guida ogni volta che salgo in auto come passeggero), trovando spesso errori basilari, come la regolazione del sedile e la posizione della mani: cose che non dovrebbero fare nemmeno i semplici patentati, figurarsi loro che devono avere anche un certificato di abilitazione professionale. Il Codice della strada è molto più severo con le auto dei tassisti stessi, che devono essere revisionate ogni anno (anche se poi sappiamo tutti che spesso le revisioni sono molto superficiali). Ne ho concluso che i pezzi di carta necessari per lavorare non servono per garantire la qualità, ma per mantenere il numero chiuso: le stesse cose che dicono persone più esperte di me riguardo alle professioni in generale…