Se Oliviero Beha è stato un gigante del giornalismo scomodo (il miglior giornalismo che io conosca), non lo si deve solo al suo essere distante dal potere (che infatti lo ha sempre ricacciato nell’angolino più angusto possibile). E nemmeno solo alla pochezza di troppi altri giornalisti, stretti fra i loro interessi e limiti personali e quelli di editori e potenti tutti. Un’altra cosa determinante nel fare la differenza era il suo genio assoluto quando conduceva una trasmissione radiofonica in diretta. Un genio che andava oltre la sua cultura, la sua intelligenza. Ne sono stato testimone diretto in uno degli episodi che porto da sempre a testimonianza del fatto che ho cercato di essere scomodo anch’io. E che d’ora in poi porterò nel cuore come punto più alto di quasi vent’anni in cui ho dato il mio infinitesimale contributo a Oliviero, stando con lui dall’unica parte dalla quale per noi valeva la pena stare: quella della denuncia, quella del pubblico che ha il diritto di sapere e di avere spiegazioni, quella opposta a chi il suo potere lo esercita senza etica.
L’episodio è collegato a quello in cui, per eludere la censura strisciante che incombe sempre sui giornalisti onesti e volenterosi, mi sono giocato già da giovane la possibilità di fare carriera: il richiamo nascosto di alcune all’epoca nuovissime Fiat Punto con cambio fragile, che mi diede la possibilità di raccontare qui ai lettori come funziona il bavaglio per i giornalisti scomodi nel mondo dell’auto.
La mattina in cui scoppiò la bomba con l’uscita in edicola della rivista per la quale lavoravo, mi sentii quasi solo: Mauro Coppini, il direttore che mi fece scrivere quella notizia e la richiamò con insolita evidenza in copertina, non rimise più piede in redazione. Qui mi restavano solo un capo bravo e onesto, Giancarlo Bussetti (un maestro), e gli amici. Troppo poco per bloccare le contestazioni dell’editore e del direttore del personale, che infatti mi arrivarono addosso puntuali e affilate. Come sempre in questi casi, subito girarono voci di querele multimiliardarie (c’erano ancora le lire). E allora telefonai a Oliviero.
Era il primo pomeriggio del 21 giugno 2000. Senza pensarci un attimo (quindi senza attivare la diffusissima prassi di chiedersi se convenisse proprio pestare i calli a questo o a quel potente), mi rispose che se ne sarebbe occupato già il giorno dopo nella sua trasmissione quotidiana, la mitica “Radioacolori” che andava in onda alle 12,30. Tempi strettissimi, dunque. Ma organizzammo una puntata che aveva la stessa caratteristica clou di molte altre: un blitz in diretta, per cogliere di sorpresa la “controparte” e così strapparle – per una volta – una reazione genuina e veritiera, non il solito comunicato stampa studiato e recitato.
Venne l’ora della diretta, io ero collegato telefonicamente dalla scrivania del mio ufficio, a Milano. Vi avevo poggiato le braccia, tese e rigide. Avevo già qualche anno di esperienza in trasmissioni, ma ovviamente quella volta la tensione me la tagliavo a fette dentro di me. Mi sentivo turbato come un bimbo che l’aveva fatta grossa e ora si aspettava l’immancabile, straripante ira dei genitori. Mi tranquillizzavano solo l’esperienza e il talento di Oliviero. Non potevo prevedere che lui ci avrebbe aggiunto un colpo di genio dei suoi.
Dunque, Oliviero lanciò la telefonata in diretta al dirigente Fiat che si era occupato di organizzare quel richiamo. Rispose la segretaria, che fece il suo lavoro: filtrò la chiamata, riferendo al capo – con un tono tra l’imbarazzato e l’incredulo – che c’era in linea Rai Radiouno che lo cercava. Ma, per ansia o per mera sfortuna, sbagliò a silenziare il microfono. Così tutti poterono sentire in diretta che la sventurata prima annunciava la chiamata al suo capo, poi dichiarava a noi e a milioni di ascoltatori che il capo non era in ufficio.
A quel punto, Oliviero s’invento una delle sue: disse alla signora che eravamo dotati di un potente strumento, un fantomatico videotelefono, col quale vedevamo che il capo era esattamente di fianco a lei. Non poté che passarcelo. Così parlammo col capo e ne percepimmo tutta la sorpresa. Non solo per la telefonata improvvisa in diretta, ma per la notizia che gli stavamo dando: lui – si appurò dopo – quel richiamo non voleva nasconderlo. Semplicemente, la lettera di richiamo uscì con un refuso che lo nascondeva.
Questo era Oliviero Beha. Questo è stato fino alla sua morte, anche se negli ultimi anni – quelle poche volte che ci sentivamo – percepivo che la rassegnazione alla crisi del giornalismo si faceva strada anche in lui che aveva resistito alla grande alle tante bufere provocate dal suo essere scomodo, ma non alle ultime. Oggi chi è scomodo resta esposto alla crescente arroganza di potenti e uffici stampa che sanno che i giornali sono economicamente e diffusionalmente sempre più deboli. Difficile trovarne uno che difenda i suoi giornalisti. E non c’è più un Oliviero a cui telefonare.