Il titolo in prima pagina è di quelli che si dovrebbero fare solo per uno scandalo tipo Watergate: “La grande truffa dei petrolieri, così gonfiano il prezzo della benzina”. Così ieri Repubblica iniziava a raccontare i roboanti sviluppi dell’Inchiesta della Procura di Varese sul presunto cartello tra le società petrolifere. Poi si leggeva l’articolo e si scopriva che i contorni della truffa sono molto più incerti. Leggendo proprio attentamente, si capiva pure che molto probabilmente del castello delle accuse alla fine resterà ben poco.
Personalmente, ne ho avuta conferma proprio ieri mattina, parlando a quattr’occhi con un interlocutore molto qualificato (anche perché non ha interessi di parte nella questione), di cui per correttezza non vi dirò il nome. Dal punto di vista strettamente penale, il problema è probatorio: l’accusa ipotizza una manipolazione dei prezzi orchestrata a livello internazionale dalle compagnie petrolifere e dagli operatori dei mercati delle materie prime, in modo da influenzare gli indici di riferimento dei prezzi dei prodotti petroliferi finiti (benzine e gasoli, non il greggio) nel mondo: i Platt’s. Un po’ come è stato probabilmente accertato per i mutui con la manipolazione dell’indice Libor da parte delle banche. Visto che i prezzi si fanno a Londra, per inchiodare ognuno alle sue responsabilità, occorrerebbe che la magistratura italiana faccia piazzare microspie o disponga intercettazioni telefoniche e perquisizioni lì. Cosa impossibile.
Obietterete che un buon investigatore sa anche fare a meno di simili mezzi. Però qui non stiamo parlando di un omicidio, di un’evasione fiscale o di un altro reato che lascia indizi e tracce; parliamo invece di un accordo, di quelli che evidentemente non si mettono per iscritto. Un accordo per portare avanti operazioni speculative che certo poi si vedono. Ma, per quello che si è visto sinora, è una speculazione lecita e già ampiamente nota. Infatti, quando i prezzi s’impennano, spesso tutti gli osservatori (esperti e stampa) parlano di speculazione senza che nessuno ipotizzi reati.
Ma la questione non è solo probatoria. C’è anche un aspetto sostanziale di cui si tiene poco conto: che cosa ci guadagnerebbero le compagnie a tenere alti i prezzi anche in questi anni di crisi nera? Il 2012 si è chiuso con un calo del consumi del 10% rispetto a un 2011 già brutto perché aveva risentito non solo della crisi, ma dell’impennata delle accise (proseguita peraltro nel 2012).
Gli italiani sono diventati sensibilissimi al prezzo, come dimostra il successo (almeno dal punto di vista delle vendite) degli scontoni di 10-15 centesimi al litro la scorsa estate. Ormai la maggior parte dei clienti si rifornisce al self service, costringendo i gestori a licenziare addetti. E le differenze di prezzo tra distributori vicini sono ormai sensibili e mutevoli (nel senso che un giorno conviene A, un altro B e un altro ancora di nuovo A); anche tra impianti che espongono marchi di compagnie petrolifere, quindi non parlo solo di pompe bianche o degli ipermercati. Cose accadute negli ultimi mesi, probabilmente troppo tardi per finire nell’ultima segnalazione dell’Antitrust, resa nota a inizio anno.
Quindi, siamo proprio sicuri che si vada avanti a tenere altissimi i prezzi di proposito anche ora che la crisi e il caro-accise stanno facendo crollare i consumi, mettendo invece a rischio il business delle compagnie? Una conferma viene anche dal fatto che in Europa molte raffinerie sono state chiuse o rischiano di esserlo.
Se le compagnie stessero giocando a farci pagare di più anche in un momento come questo, diciamo che la loro strategia sarebbe temeraria.