Quando si dice la disinvoltura. Da una dozzina di anni le biciclette elettriche (tecnicamente chiamate “a pedalata assistita”) hanno finalmente un inquadramento tecnico, che è semplice e preciso: il motore deve smettere di funzionare quando si raggiungono i 25 km/h, altrimenti giuridicamente il veicolo è da considerare ciclomotore o motocicli e quindi va targato e assicurato e richiede la patente. Eppure in vendita si sono sempre trovati esemplari ben più veloci senza che nessuno facesse una piega. Ora che qualche blitz (soprattutto contro prodotti cinesi) è stato fatto, qualche produttore si è fatto furbo: nell’etichetta descrittiva ha dichiarato una velocità di 25 km/h per l’uso su strada e un’altra (48 km/h, in un caso che mi è appena capitato sott’occhio) per l’uso in aree private.
Una foglia di fico: come si fa a controllare che il ciclista di turno regoli correttamente la manopola della potenza. E comunque per un veicolo la velocità massima da considerare dovrebbe essere quella effettivamente raggiungibile accelerando a fondo per un po’, non quella imposta da blocchi disinseribili con un apposito comando.
Per capirci, anche i motorini possono teoricamente superare il loro limite legale (45 km/h), ma nella pratica per farlo occorre manometterli. Quindi, non c’è un comando che seleziona la modalità d’uso.
Il risultato finale è che nella sostanza anche con questo accorgimento giuridico chi usa una bici del genere dovrebbe restare punibile. L’indicazione di due diverse velocità massime pare servire di più al costruttore per dire al cliente “io ti avevo avvertito, la compravendita resta valida e io non sono punibile per pratica commerciale scorretta perché sono stato già io a evidenziarti che c’è differenza tra strade aperte al traffico e aree private”. Ma chissà come la penserebbe un giudice di pace se fosse investito di una controversia del genere.