Sul Sole 24 Ore di oggi trovate un mio articolo sull'ultima puntata della telenovela che potrebbe finire con l'abbattimento del regime dei costi minimi nell'autotrasporto. Quello che dal 2010, di fatto, vieta di chiudere contratti in cui il committente paga al vettore un prezzo inferiore ai costi minimi del trasporto, stimati da un Osservatorio istituito presso la Consulta nazionale dell'autotrasporto. Questo sistema ha fatto imbufalire le imprese italiane (da Confindustria in giù), che hanno presentato ricorsi in tutta Italia. Il risultato è che la normativa sarà portata davanti alla Corte costituzionale e – è notizia di ieri – anche davanti alla Corte di giustizia europea. Dall'altra parte della barricata, le imprese di trasporto.
Chi ha ragione? Cerchiamo di spiegarlo con obiettività.
Il sistema dei costi minimi è stato l'unico modo di una certa efficacia che l'Italia è finora riuscita a darsi per tutelare la sicurezza stradale nell'autotrasporto. Si sa che gli operatori del settore hanno molto peso nelle decisioni politiche, non foss'altro che per la loro capacità di bloccare letteralmente il Paese quando decidono di scioperare sul serio. Ma sono anche una categoria frammentata, in cui le imprese non sono mai cresciute abbastanza (anche se qualcosa si è fatto con incentivi alle aggregazioni) e quindi sono esposte alle pressioni della committenza sui prezzi. Il caro-gasolio e la concorrenza degli stranieri fanno il resto (mentre passano in carrozza solo provvedimenti graditi sia ai vettori sia ai committenti, come il taglio di giorni di fermo dei tir durante giorni festivi ed esodi).
Per questo, è sempre molto forte la tentazione di ridurre i costi coi soliti sistemi: spremendo gli autisti e i camion, risparmiando sulla manutenzione e via rischiando. Parallelamente, non c'è alcun incentivo serio a investire sul miglioramento dell'organizzazione del lavoro: chi lo facesse dovrebbe comunque fare i conti con un sistema logistico italiano che non è all'altezza degli altri Paesi con cui dovremmo competere. Quindi non si salverebbe dalle lentezze dovute, per esempio, a traffico sulle strade e operazioni di carico e scarico non ottimali in porti e autoporti.
Molto meglio risparmiare. Anche a costo di violare le regole. Anche perché controlli ce ne sono sempre pochini. Tanto che, quando se ne fanno, molti vengono colti in fallo, evidentemente perché considerano improbabile incappare in un posto di controllo.
Certo, rispetto a una decina di anni fa abbiamo iniziato anche noi in Italia a controllare i mezzi pesanti con officine mobili di revisione come impone la Ue, ma ci sono problemi tecnici, organizzativi e finanziari a farli funzionare sempre bene. E, se anche funzionassero perfettamente, poco potrebbero in un Paese dove il trasporto merci su ferrovia è sempre stato scarso e camion in giro ce ne sono davvero tanti. Troppi, per essere controllati efficacemente come si fa nella meno affollata Svizzera. Senza considerare quello che succede nelle revisioni periodiche: tutti sanno di dovervisi sottoporre entro una certa data, ma a volte contano sulla distrazione dei controllori.
Partendo proprio da questa realtà, le associazioni dei committenti fanno ricorso contro i costi minimi: dicono che le norme sulla sicurezza ci sono già e quindi vanno fatte rispettare, senza imporre costi per decreto, penalizzando la libertà d'impresa. Possiamo aggiungere un altro particolare: senza controlli, chi lo ha detto che un vettore che intasca un prezzo adeguato a far viaggiare in sicurezza i propri camion non preferisca tenersi i soldi in tasca?
Però, se per miracolo si riuscisse a fare controlli frequenti ed estesi, non è improbabile che i prezzi si alzino da soli. Altrimenti dovrebbero fermarsi tutti, salvo che, per un altro miracolo, la logistica italiana arrivi davvero a livelli da Paese sviluppato. E questa è una realtà ineludibile, che nessun ricorso o controricorso delle parti potrebbe sovvertire.