Chissà se a Torino e Detroit farà piacere o no. Certo è che, se davvero non si troverà un compromesso a breve sulla vicenda dell’Ilva di Taranto, una delle prime conseguenze all’esterno dell’ambito locale rischia di essere il blocco della produzione della Fiat Panda. Infatti, lo stabilimento di Pomigliano d’Arco (Napoli) dove da fine 2011 si produce la nuova serie dell’utilitaria è uno dei maggiori “clienti” del mega-impianto tarantino, che ha sempre lavorato molto per l’auto (tanto da soffrirne la crisi, negli ultimi anni). La nuova Panda è uno dei pochi pilastri su cui si fondano le speranze della Fiat di non cedere alla crisi e in effetti il modello è in cima alle classifiche di vendita nazionali, ma non basta: l’azienda aveva programmato un po’ di cassa integrazione anche per Pomigliano (anche se molto meno degli altri suoi stabilimenti nazionali). Così non è detto che un eventuale fermo dell’Ilva, specie se breve, si trasformi in un’opportunità per smaltire qualche scorta di Panda, mentre alla lunga impedirebbe di fronteggiare la concorrenza e farebbe pentire Marchionne di aver ritrasferito la produzione del suo modello di punta dalla Polonia all’Italia.
Lasciatemi però dire che questi sono ragionamenti cinici rispetto al dramma di Taranto. Che, oltre ad essere la città di origine della mia famiglia e dove ho i parenti, è anche un posto più importante di quello che molti pensano: è una delle poche agglomerazioni urbane che, pur non essendo capoluogo di regione, mette assieme 200mila persone (trent’anni fa, quando ci vivevo io, eravamo in 250mila). Tanto affollamento si deve proprio all’Ilva, nata come Italsider negli anni Sessanta, quando infatti la città cambiò irreversibilmente.
All’epoca si faceva più attenzione al lato economico (la fame storica e della guerra mordeva ancora) ed “estetico”, con palazzi brutti o bruttini messi uno di fianco all’altro a creare stradine buie come in un centro storico. E con decine di migliaia di calabresi, lucani e pugliesi di altre province a mischiarsi ai tarantini veraci (quelli abituati a campare di pesca, mitilicoltura e Marina militare, grazie all’Arsenale, alla base navale e alle scuole sottufficiali), tanto che ancora oggi in città si sentono tanti accenti diversi e chi è del luogo da quelli riesce a intuire origine e stato sociale di chi gli sta parlando. Capita dappertutto, ma a Taranto le differenze sono più evidenti.
La crescita economica fu propiziata dalla Dc e presa molto bene dal Pci, che “approfittò” della trasformazione di Taranto in città operaia, tanto da avere i voti per governarla fino alla sbornia socialista degli anni Ottanta. Mentre la Chiesa assisteva tanto benedicente quanto oggi è in difficoltà a stare sul crinale salute-lavoro: Paolo VI trascorse con gli all’epoca 25mila operai del siderurgico la notte di Natale del ’68. Lo chiamavano “il quarto centro siderurgico” (per data di costruzione, dopo Genova-Cornigliano, Napoli-Bagnoli e Terni), con quella terminologia da sviluppo pianificato alla sovietica che già pensava di fare il quinto a Gioia Tauro (mai concretizzato, tanto che vent’anni dopo nell’area individuata per il siderurgico nacque il maxi-porto container).
Nessuno si curava di quanto potesse inquinare uno stabilimento piazzato appena fuori dal centro abitato. Anzi, si costruirono anche graziose villette in una borgata vicinissima, Statte, e ci andarono ad abitare anche dirigenti dell’Italsider. Dopo vent’anni, quelle villette si erano già deprezzate, ma più per la polvere dello stabilimento (che a fine anni Settanta aveva anche fatto costruire un paio di collinette artificiali per proteggere i Tamburi, quartiere più operaio e contemporaneamente più a rischio, data l’estrema vicinanza) che per la consapevolezza dei pericoli per la salute, di cui si cominciò a parlare solo negli anni Novanta. Prima di allora, c’era solo l’orgoglio di avere lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, che noi ragazzini sentivamo di avere il privilegio di poter visitare in gita scolastica. Ricordo che tra i più orgogliosi, naturalmente, c’erano i figli di tecnici e impiegati Italsider. L’orgoglio era veicolato anche da “Telebramma”, una trasmissione dell’Iri la cui registrazione passava dalle tv locali: tra un servizio sull’alta tecnologia siderurgica e un’intervista al presidente Romano Prodi, si celebravano i fasti aziendali e, forse, si dava un po’ da mangiare alle neonate televisioni private (chissà se c’è differenza rispetto alle dazioni evocate nelle intercettazioni telefoniche recenti da Girolamo Archinà, storico uomo delle relazioni esterne dell’azienda a Taranto, cacciato qualche giorno fa dopo decenni proprio perché intercettato a dire tante cose, tra cui “alla stampa bisogna tagliare la lingua”, a suon di soldi).
Negli anni Ottanta, la crescita del Paese portò qualche operaio ad affrancarsi dalla vita della fabbrica, magari per evitare di fare il pendolare dal paesello agricolo della provincia, mettendosi a coltivare un po’ di terra di famiglia abbandonata con l’avvento dell’industria. Magari li vedevi d’estate a godersi un po’ di spiaggia nella marina del paese, a fissare le ciminiere visibili in lontananza con la superiorità di chi ce l’ha fatta a scappare e qualche gestaccio di scherno per il gigante dell’acciaio.
Ma erano eccezioni: di solito dal siderurgico si usciva iniziava a far capolino per i licenziamenti legati alla crisi dell’acciaio, la stessa che a metà anni Novanta favorì una privatizzazione a prezzo non altissimo, a favore dei Riva di Milano, che cambiarono il nome in Ilva. Faceva così capolino anche la preoccupazione per la monocultura dell’acciaio: l’economia di Taranto aveva trascurato troppo le altre attività, primo fra tutti il turismo (eppure c’è la storia greca con un museo nazionale e tante vestigia quasi abbandonate, per non parlare dell’unicità del paesaggio con due mari cittadini e una costa orientale con fondali da Sardegna). Erano infatti gli anni in cui anche la presidenza degli industriali andava a imprenditori dell’indotto, le cui aziende magari nel siderurgico facevano solo le pulizie o giù di lì. Del grado culturale medio di questi imprenditori taciamo: vi basti sapere che a volte attraverso le tv locali ci regalavano involontariamente tanto buonumore.
Altri tempi. Dagli anni Novanta si parlò sempre più insistentemente di diossina e benzo(a)pirene, di malati di cancro, bambini malformati, scarichi a mare e statistiche rese note a fatica. Ma l’Italia non ascoltava (salvo sentire ora i turisti arrivare in treno e, sull’onda delle notizie del momento, lamentarsi per la puzza, che per noi è sempre la stessa e in realtà viene soprattutto dalla raffineria Eni, come a Gela e Augusta).
Così a Taranto, in fondo, si pensava che la pentola non sarebbe mai scoppiata. Poi, lo scorso decennio, lo storico accordo con la Regione di Nichi Vendola: i Riva accettarono limiti alle emissioni inquinanti e investimenti per allinearsi alle Bat (le migliori pratiche del settore). Tutto inutilE, a giudicare dalle ultime notizie.