L'altro giorno, nell'agenda mediatica della crisi e della manovra, Giulio Tremonti ha inserito un "tagliando all'economia". Cioè la possibilità di adottare misure di stimolo di varia natura, tra cui l'immancabile velocizzazione dei cantieri per le nuove infrastrutture. Sfogliando un pochino all'indietro la stessa agenda, troviamo l'abolizione delle Province, che ha fatto anche un primo passetto concreto in Consiglio dei ministri. Ma, se davvero dovesse andare in porto, che cosa succederà alle strade provinciali? Che non sono solo quelle secondarie che eravamo abituati a considerare: da oltre dieci anni – col federalismo stradale della legge Bassanini – ci sono pure tante statali (anche superstrade) passate alle Regioni, che poi a loro volta nella maggior parte dei casi le hanno girate alle Province.
La domanda non è banale: non si tratta solo di stabilire che dalla data X la gestione passa al soggetto Y. Infatti, vanno pure individuate le risorse su cui Y potrà contare. Perché sulla manutenzione di queste strade si è investito pochino (e forse sto usando un eufemismo). Questo significa che, se al momento del passaggio dall'Anas alle Province le condizioni di molte arterie non erano certo perfette, adesso le cose non possono che essere peggiorate (si è visto col tratto ligure dell'Aurelia, restituito all'Anas un paio di anni fa): infrastrutture del genere non sono eterne. Hanno un ciclo di vita e necessitano di manutenzione, pianificata. Spesso la politica se ne dimentica o fa finta di farlo, ma resta il fatto che asfalti, segnali, guard-rail, viadotti, gallerie, impianti d'illuminazione e quant'altro vanno rimessi a posto. Spesso utilizzando materiali e componenti adeguati al progresso tecnico e alle norme.
Ovviamente tutto ciò richiede soldi. Che – manco a dirlo – non ci sono. Così si rappezzano le buche o poco più, mettendoci poi mesi (se non anni) per pagare le imprese che fanno i lavori; nel caso degli enti locali, ciò accade anche quando soldi in cassa ce ne sono, perché quando si sfora il patto di stabilità così è. E così le imprese falliscono, presto temo avremo notizie. Nel frattempo, resta sullo sfondo la questione dei pedaggi su autostrade e raccordi autostradali Anas, che secondo il calendario della politica (trasfuso stavolta anche in legge, ma inapplicabile) si sarebbero dovuti riscuotere già da un anno.
Occorre dunque inventarsi qualcosa per raccogliere quattrini. Magari iniziando a riscuotere quanto già dovuto e largamente non incassato su passi carrabili e pubblicità (la lotta all'evasione è anche questo in Italia, anche se nessuno ne parla). E poi c'è la necessità di coinvolgere la finanza privata, che però s'attizza ben poco sulla manutenzione di una strada. Cioè di un bene che, pur avendo un suo indubbio valore intrinseco e d'uso, non viene considerato ai fini del patrimonio dell'ente proprietario. Ce ne accorgeremmo solo se fosse necessario chiudere del tutto una strada perché non ha i requisiti minimi di transitabilità e non ci sono i soldi nemmeno per ripristinarli.
Ma in Italia non si arriva mai a chiudere una strada. Si devono salvaguardare il diritto alla mobilità e la faccia dell'assessore o del ministro di turno. E così si dissemina la strada di segnali provvisori con limite di velocità a 30 all'ora o, al massimo, si vieta anche la circolazione ma omettendo sistematicamente di controllare se "per caso" qualcuno viola il divieto, il che equivale a chiudere per finta. Per la verità, qualche mese fa la Corte dei conti del Lazio ha indicato anche una terza via: al sindaco di Anagni che chiedeva che cosa fare quando non ci sono soldi per tappare le buche, ha risposto che si possono anche tagliare altre spese meno urgenti o utili. Ma, si sa, urgenza e utilità sono cose su cui si può discutere.