In "Report" di ieri sera ho visto praticamente tutto dell'Italia che mi è nota. Non solo e non tanto quando si parlava dello "strano" rinnovo delle cariche nell'Ac Milano (anzi, ricordo un noto imprenditore-candidato che a Taranto nel 1987 mise qualche impiegata a tempestare noi soci di telefonate la domenica delle elezioni e comunque in ogni umana votazione i candidati fanno di tutto per accaparrarsi tessere e voti) né quando si evidenziavano le difficoltà finanziarie di altri Ac (esiste un'ampia casistica affrontata negli anni dalla Corte dei conti). Della proliferazione di incarichi in capo alle solite persone e degli affari immobiliari opachi di politici, poi, sentiamo parlare sin troppo. Secondo me, il vero punto cruciale della trasmissione è la nuova rubrica "C'è chi dice no", che parla di persone che si sono messe di traverso a scelte perlomeno discutibili di enti e aziende nelle quali lavorano: ieri sera l'hanno inaugurata con la storia di un consigliere di amministrazione dell'Amiat (la multiservizi ambientale di Torino) che ha denunciato una palese corruzione e di fatto è stato quello che ci ha rimesso di più (la poltrona, senza nemmeno un ringraziamento dall'azienda i cui interessi aveva difeso). Come se fosse un testimone di mafia, non un amministratore di una società pubblica di una delle regioni più evolute d'Italia (chiediamoci quindi che differenza ci sia davvero tra un'associazione criminale e la società civile).
A mio modesto parere, questa vicenda è emblematica di come funziona il Paese: gli interessi personali vengono prima di quelli collettivi (aziendali, istituzionali o generali che siano), per cui è evidente che quando qualcuno fa il proprio lavoro con fedeltà e capacità non può aspettarsi grandi cose. Le grandi cose che invece attendono chi sta al gioco.
Sempre a mio modesto parere, diventa così più comprensibile la denuncia fatta una settimana fa dal "Barbiere della Sera" (http://www.ilbarbieredellasera.com/article.php?sid=17564) su un direttore di "Quattroruote" rimasto in carica dieci anni nonostante avesse portato a casa risultati per nulla brillanti in termini di copie vendute (evidentemente senza una compensazione dal web o dalla pubblicità, se è vero che è in atto uno stato di crisi, peraltro comune a molti media italiani) e preso sanzioni per pubblicità occulta (salvo poi definirsi "onesto" nel saluto scritto ai lettori quando ha lasciato il posto, lo scorso luglio). Il punto vero non è il comportamento del singolo direttore, ma l'esistenza di un sistema basato sul conseguimento di risultati diversi da quelli che teoricamente costituiscono lo scopo di un'azienda o di un ente. Quel sistema che, nel caso specifico, ha dato più importanza alla raccolta pubblicitaria (risultato tangibile e raggiungibile a breve, in cambio del rischio di intaccare la credibilità, sulla quale si basano sia le vendite sia la raccolta pubblicitaria a medio-lungo termine, che garantiscono una lunga sopravvivenza e per questo dovrebbero stare particolarmente a cuore all'editore).
Sistemi del genere ne vedo da molte parti e vanno tutti a scapito di chi compie il proprio dovere come da scopo ufficiale dell'organizzazione in cui opera. Per questo, quando vedete un servizio giornalistico che denuncia cose che accadono all'Aci, all'Amiat a "Quattroruote" o dove volete voi, non dovete intenderlo come qualcosa che affossa l'intera struttura. Perché in quella struttura c'è pure chi fa il proprio dovere ed è il primo a patirne la difficoltà, a sentire la tentazione di stare al gioco. E perciò quelle strutture restano irrinunciabili nel nostro settore: producono informazioni, studi, sapere.
Quindi, continuerò a dare conto di tutte le iniziative dell'Aci e di "Quattroruote" si dimostrino meritevoli. Allo stesso modo, continuerò a scrivere degli aspetti che non vanno.