Se non lo avete letto su "Quattroruote" di questo mese, probabilmente ve ne siete accorti dalla pubblicità della Citroen: alcuni allestimenti di 12 modelli della casa francese (per un totale di 18 versioni sulle circa 150 a listino) sono stati "approvati" dall'autorevole mensile. Per ottenere quest'approvazione, occorre conformarsi a cinque requisiti, di cui tre a dire il vero scontati: Esp di serie, motore Euro 5 (entrambi di prossima adozione obbligatoria) e assenza di vetri oscurati (comune alla maggior parte del mercato). Degli altri due requisiti, uno ha effettivamente valore (garanzia di cinque anni, anche se non è precisato se sia subordinata a clausole particolari, che di solito in questi casi non mancano) e l'altra è riservata a chi cambierà queste auto "approvate" con un'altra Citroen (è l'impegno a ritirare l'auto a una quotazione superiore a quella che "Quattroruote" stessa avrà determinato al momento della permuta). Quest'ultima clausola è pure l'unica che consente alla Citroen di essere unica a farsi approvare da "Quattroruote".
Insomma, gli indizi di un'operazione commerciale (la redazione resta autorevole, ma nel giornalismo d'oggi l'autorevolezza non esclude l'impotenza nei confronti di certe scelte aziendali) non mancano. E infatti i lettori più attenti se ne sono accorti, animando un dibattito da Paoblog (http://paoblog.wordpress.com/2010/09/06/quattroruote-credibilita/) e nel blog del direttore della rivista (http://andiamodicorse.quattroruote.it/). Che, in risposta, ha aggiunto un particolare non esplicito nella presentazione dell'iniziativa: quelle versioni approvate sono iniziative speciali limitate nel tempo. Quelle stesse iniziative che nei decenni "Quattroruote" ha giustamente criticato, in nome della trasparenza dei listini.
Ognuno la pensi come vuole. Io non sono affatto scandalizzato: sono cose che nel nostro ambiente accadevano, accadono e accadranno (http://mauriziocaprino.blog.ilsole24ore.com/2010/07/il-bavaglio-e-la-stampa-dellauto.html), pur essendo di volta in volta più o meno evidenti all'esterno. Non devono scandalizzare nemmeno se, andando a ritroso, si ritrovano coinvolti gli stessi giornali con gli stessi inserzionisti: non vuol dire che quei giornali parteggiano per quegli inserzionisti, ma che questi ultimi spendono di più in alcuni strumenti promozionali. Né possiamo noi arrogarci il diritto di stabilire se il beneficio finanziario immediato di una certa sponsorizzazione superi il potenziale danno economico derivante nel lungo termine da un'eventuale perdita di credibilità: i manager hanno saperi e dati per fare loro la valutazione, prendendosene anche la responsabilità nei confronti dei lavoratori (tanto più in periodi di cassa integrazione e prepensionamenti com'è questo per una buona fetta della stampa italiana).
Quello che invece credo necessario porre è un problema di carattere generale: come può il lettore pretendere organi di stampa liberi, seri e autorevoli, che però contemporaneamente perdono sempre più copie e che coprono i costi sempre meno col ricavato delle vendite?
Questo interrogativo è l'altra faccia di quello che arrovella i manager delle aziende editoriali: riuscire a far pagare i contenuti di qualità, superando la concorrenza impropria di free-press e web. Detto così, sembra solo un problema di marketing o comunque aziendale. Considerati però gli effetti collaterali sui contenuti, diventa una questione più alta. Forse addirittura di democrazia. Se al lettore lo si raccontasse chiaro e sempre più spesso, forse lo si riuscirebbe a convincere a spendere il giusto anche per informarsi.