Dopo una tragedia arriva sempre l’emozione. Che va assolutamente rispettata: non lo dico per non apparire un mostro, ma perché una volta mi è capitato di esserne toccato personalmente e pesantemente. Oggi però, a dieci giorni dai fatti, lasciatemi fare qualche osservazione sulla proposta di dedicare una strada della zona industriale di Molfetta alle cinque vittime dell’incidente sul lavoro di cui tanto si è parlato la settimana scorsa.
Credo che una targa toponomastica rischi di apparire persino insolente: le strade delle aree industriali sono talmente lasciate a se stesse che alcuni loro gestori declinano ogni responsabilità qualunque cosa succeda. Una cosa inaccettabile in un Paese che straparla di incidenti sul lavoro e poi dimentica che la metà di essi accade non in fabbriche e cantieri, ma su strada. Tanto che la settimana scorsa si è puntato il dito contro la scarsa formazione dei lavoratori invocando corsi di formazione professionale ad hoc e dimenticando che per andare su strada i corsi sono già obbligatori (dalle patenti per i conducenti normali ai certificati di qualificazione professionale per gli autisti di mezzi pesanti) ma servono a poco, in assenza di una cultura della sicurezza.
L’immagine che rende meglio l’idea si può trovare proprio a una trentina di chilometri da Molfetta: potete vederla entrando nella zona industriale di Bari, dove un cartello avvisa che in tutta l’area le strade sono dissestate e manca la segnaletica (in realtà un po’ di cartelli ci sono qua e là, cosa forse ancora più pericolosa perché non c’è un criterio unico). Quel cartello indica che i gestori dell’area si sono arresi.
Non è un caso isolato: qui nelle redazioni locali del Sole-24 Ore ci occupiamo in continuazione delle lamentele degli imprenditori sulle zone industriali. Certo, nella maggior parte dei casi ci si concentra sugli episodi di criminalità (soprattutto furti), sulla mancanza d’illuminazione, acqua e gas, sui rifiuti che vengono raccolti sporadicamente e sull’obbligo di pagare tributi relativi a servizi che non vengono assicurati: la sicurezza stradale non è in cima alle preoccupazioni. Ma non è un mistero che gli imprenditori si chiedano in generale se i contributi che loro pagano ai consorzi di gestione servano anche a fini diversi dal semplice pagamento degli stipendi ai dipendenti dei consorzi stessi.
Il fatto che non siano ancora successi incidenti stradali gravi nelle aree industriali non autorizza ad abbassare la guardia: i fattori di rischio sono tanti. A partire dalla consapevolezza di trovarsi in una terra di nessuno, dove nessuno controlla e quindi ci si può muovere senza rispettare nemmeno le regole basilari come quella di tenere la destra (anche perché spesso le traiettorie le decidono più le buche che i conducenti). E per finire al fatto che di notte possono esserci corse clandestine, di veicoli o di cavalli: se per caso un giorno capitasse che un’azienda resti attiva anche in quelle ore, non saprei proprio come finirebbe.
La verità è che manca una cultura della sicurezza. Si è parlato anche di questa la scorsa settimana, ma senza spiegare bene che cosa sia. Io la definirei come quella cosa per cui chi è scrupoloso e osserva cautele all’apparenza eccessive non debba più essere preso in giro dagli altri, bensì preso come esempio. A proposito di esempi, eccone uno che mi ha suggerito un anno fa proprio un imprenditore: lui opera nel campo delle analisi di qualità degli asfalti e viene interpellato più facilmente da grandi aziende estere per verificare la pavimentazione dei propri piazzali che da costruttori di strade italiane.