Ieri anche Maurizio Lupi si è aggiunto all’elenco degli ex ministri delle Infrastrutture che – chiamati dalla Procura di Genova a testimoniare su come il ministero vigila sui gestori autostradali – hanno detto di aver fatto tutto il loro dovere e che eventuali buchi sono dovuto solo a mancanza di risorse. Come da copione. Un copione recitato nei mesi scorsi anche da Graziano Delrio e Antonio Di Pietro. Ma quando si può credere che un ministro proprio non possa far nulla? E che cosa ci suggeriscono le testimonianze degli ex ministri, aldilà della pura inchiesta penale di Genova sul crollo del Ponte Morandi?
Innanzitutto, va notato lo scaricabarile nelle dichiarazioni pubbliche di Lupi e Di Pietro. Lupi ha accennato al fatto che la convenzione tra lo Stato e Autostrade per l’Italia (Aspi) è stata resa più favorevole ai Benetton nel 2007-2008, proprio il periodo in cui ministro era stato Di Pietro. Il quale aveva negato di aver spinto lui stesso per quelle modifiche, andando contro le evidenze delle cronache dell’epoca.
Va poi ricordato che, sì, soldi per assumere nuovi ingegneri per la vigilanza non ce n’erano. Tanto che nel 2014 furono lasciati a casa giovani tecnici impiegati a tempo determinato. Ma vari episodi suggeriscono che a volte non si è controllato abbastanza nemmeno quando ciò era più o meno possibile. E nel 2013, nemmeno di fronte a un incidente da 40 morti con forti dubbi sulla responsabilità del gestore (poi condannato in primo grado, l’11 gennaio scorso), Lupi fece almeno la mossa di aprire un’inchiesta: preferì fare muro di gomma.
Sembra dunque emergere una sorta di tacito accordo tra Stato e gestori privati. Facile galoppare con la malignità e pensare che volino mazzette e favori, per le forze politiche e personalmente per i loro componenti. Più difficile pensare a un aspetto più serio che forse è alla base di tutto: come si sono fatte le privatizzazioni, in Italia?
Erano gli anni Novanta, lo Stato cercava soldi per entrare nell’euro e vendette tutto il possibile. Nel caso delle autostrade (come in quello dell’Ilva, che non a caso si è trascinato anch’esso fino ai giorni nostri), non si disfece di gioielli, ma di aziende e strutture che necessitavano di forti investimenti. Pensate che negli ultimi anni dell’epoca Iri, sulla rete di Autostrade si alzavano i guard-rail – finiti rasoterra man mano che si riasfaltava la carreggiata – semplicemente con un tiro di ruspa, lasciando i paletti di sostegno per buona parte fuori dal terreno. Così cade il mito di una nazionalizzazione presentata l’estate scorsa come la panacea: se i privati non hanno funzionato, non è che prima lo Stato abbia saputo fare tanto meglio. Senza contare che tanti dirigenti della Autostrade dell’Iri hanno continuato a lavorare in Autostrade privatizzata o per altri gestori privati.
Dunque, vent’anni fa ci volevano tanti soldi per manutenzioni e nuove autostrade (e pure per rendere meno inquinante l’Ilva). Però lo Stato non poteva permetterseli di svendere, pena il mancato ingresso nell’euro. E infatti poi i prezzi non sono stati proprio da svendita.
In questa situazione, è così fantascientifico pensare che lo Stato abbia garantito informalmente ai privati che poi non avrebbe vigilato seriamente? E sono dovuti venire i tumori a Taranto e 85 morti per il degrado autostradale a riaccendere le luci su questa vecchia partita. Che poi qualcuno – dal ministro all’usciere – abbia approfittato della situazione per trarne vantaggi è cosa possibile ma non dimostrata e, forse, nemmeno così determinante dato il contesto.
Ora si dice che l’inchiesta di Genova punterà su altri due grandi protagonisti della privatizzazione di Autostrade: Pietro Ciucci (che all’epoca era presidente dell’Anas, delegata dallo Stato a vigilare sui gestori autostradali) e Vito Gamberale (primo amministratore delegato di Autostrade privatizzata). Ma, più che responsabilità penali, è più probabile che emergano responsabilità politiche e storiche.