Perché tutto questo clamore sul primo incidente mortale in cui è coinvolta un’auto a guida completamente autonoma? E perché nel clamore non si cerca qualche elemento più concreto per capire che cosa è successo e che cosa rischiamo davvero? Facciamo un po’ di ordine tra le tante e solite cose che si stanno dicendo e qualche particolare molto meno noto.
Quanto al clamore, certo, l’argomento è sensibile e si presta. Ma, in fondo, nel 2016 e nella sola Italia ci sono stati quasi 100 pedoni uccisi sulle strisce da veicoli normalmente guidati da esseri umani. Non si possono però fare paragoni: non solo perché la persona uccisa dall’auto a guida autonoma stava attraversando fuori dalle strisce, ma anche perché il numero di vittime andrebbe paragonato al numero di chilometri complessivamente percorsi con guida autonoma e a quelli percorsi con guida tradizionale umana. Comunque questo ci ricorda che tra i principali obiettivi della guida autonoma c’è la riduzione delle vittime. E per arrivarci bisogna passare attraverso la sperimentazione.
Quindi non dimentichiamoci che la povera 49enne Elaine Herzberg, investita mentre attraversava fuori dalle strisce pedonali una strada a quattro corsie di Tempe (sobborgo di Phoenix, Arizona, Usa) portando a mano la sua bici, è vittima della sperimentazione: la Volvo XC90 che l’ha travolta era appunto una vettura utilizzata per test su strada, condotti nella fattispecie da Uber. Se vogliamo che la guida autonoma diventi affidabile consentendoci di avere un’opzione in più per farci spostare meglio, non possiamo che sperimentarla in condizioni reali. E sotto questo aspetto la vita di Elaine – è brutto dirlo – appare un prezzo inevitabile.
Piuttosto, chiediamoci come si sta usando la sperimentazione. Aldilà delle frammentarie regole che la disciplinano (ogni Stato ha le proprie, quando ne ha), uno dei problemi meno evidenti è che le aziende, per loro natura, cercano di minimizzare i costi. In questa chiave, fa effetto riprendere in mano Quattroruote di settembre e leggere che un giovanotto di 22 anni, Austin Russell, di fatto accusava le case automobilistiche di utilizzare sensori non tanto evoluti quanto la tecnologia consentirebbe, sia pure ad alti costi. Secondo Russell, la tecnologia adottata oggi commette un errore ogni mille miglia, mentre una soglia accettabile sarebbe quella di un errore ogni cinque milioni di dollari. E un radar di oggi costa 80mila dollari ma non ha margini per progredire, quindi ci vogliono altri dispositivi lidar più evoluti, in cui costo è stimato da Russell in 3-400mila dollari. Intendiamoci: Russell ha tutto l’interesse a dire così, visto che ha fondato una start-up con lo scopo proprio di migliorare i lidar. Quindi la sua posizione potrebbe essere esagerata. Ma non là si può nemmeno ignorare del tutto.
Non dobbiamo poi dimenticare che la guida autonoma convivrá su molte strade con quella tradizionale, facendo diminuire alcuni pericoli ma creandone altri.
Di fronte a questo, ora qualcuno commenta l’incidente di Phoenix dicendo che per certi aspetti è preferibile la guida semi-autonoma, che conserva al guidatore la responsabilità del veicolo, si sta già diffondendo su alcuni modelli in commercio e si svilupperà sempre più. Ma anche qui i problemi non mancano. Anche perché sono troppi i conducenti che la prendono come una guida autonoma vera e propria. Così, ad esempio, su un’autostrada sicura e moderna come la Brebemi gli zoom delle telecamere di videosorveglianza mostrano gente che chatta al volante impugnando lo smartphone con entrambe le mani.