Ieri il ritornello secondo cui i Comuni fanno cassa con le multe ha fatto capolino nientemeno che sulla prima pagina del Corriere della Sera. Nulla di male in sé: si sa che non di rado è tutto vero e che così il cittadino (quello davvero onesto e davvero ligio) si arrabbia. Però non si può citare un caso descrivendolo come un vero imbroglio organizzato (reato) e poi scrivere, com’è stato scritto, che tanto non c’è nulla da fare come se si trattasse di una normale multa contro cui tentare un inutile ricorso.
Mi spiego meglio. Si citava il caso di un lettore multato due volte dal Comune di San Vincenzo (Livorno), sempre per aver superato di 3 km/h il limite di velocità. Dall’articolo emerge che le foto dell’infrazione non riportano la velocità effettivamente rilevata. Diamo per buono tutto ciò, anche se mancano quei pochi dettagli tecnici (come il nome dell’apparecchio con cui sarebbero state accertate le violazioni) che consentirebbero di verificarne la verosimiglianza. Non vi sembra di essere di fronte come minimo al reato di falso in atto pubblico?
Un illecito grave, di quelli per i quali i pm di solito si muovono. E allora perché nell’articolo si scriveva che il lettore avrebbe dovuto sobbarcarsi i costi e i disagi del ricorso contro la multa (ben superiori ai 37 euro della sanzione, perché il lettore dovrebbe spostarsi da Milano), quando qui ci sarebbe solo da andare nell’ufficio di polizia più vicino per presentare un esposto?